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L'angelo Azzurro
Quella era una strana giornata: appena aveva aperto gli occhi non aveva potuto che stupirsi per l’intensità dell’azzurro nel cielo.
Si era svegliato con una canzone di Battisti che gli ronzava nella testa, era anni che non la sentiva, ma da ragazzo gli piaceva un sacco:
“Acqua azzurra, acqua chiara
Con le mani posso finalmente bere
Nei tuoi occhi innocenti
Posso ancora ritrovare
Il profumo di un amore puro
Puro come il tuo amor”
Era una vecchia bella canzone: Mogol a quei tempi andava alla grande con i testi.
La storia raccontava di uno che era stato mollato dalla donna, e ogni sera andava a cercarsi una mignotta in qualche bar.
Poi aveva, finalmente, incontrato una ragazza per bene, che gli aveva fatto ritrovare un amore puro; a quel punto, aveva smesso di frequentare bar equivoci alla ricerca di figa.
Ma ovviamente tutto questo era irrilevante.
Il fatto realmente significativo di quella nuova giornata era che Azzurra l’aveva mollato.
Era stato un addio molto stringato e preciso, di quelli definitivi.
Gli aveva mandato un messaggio esplicito su WhatsApp:
“Fottiti e crepa! Brutta merda!”
Se c’era una qualità in quella ragazza, era l’essere estremamente diretta: quello che voleva dirti, lo diceva con chiarezza, senza inutili giri di parole.
Dopo il messaggio lo aveva anche bannato, senza dargli la possibilità di replicare.
Che poi, anche volendo, a un messaggio così, che cosa avrebbe potuto replicare?
Mica poteva scriverle qualcosa del tipo:
– Ma, no. Ciccina, che dici, parliamone, dai.
Di che volevi parlare? Cosa mai c’era da dire? Inutile cercare di giustificarsi o discolparsi: dirle che no, che era tutto un equivoco, uno scherzo.
Col cazzo che ci avrebbe creduto.
Poi, perché essere così perentoria? Magari, visto che lo lasciava, avrebbero potuto scopare per l’ultima volta: era un bel modo romantico di dirsi addio.
Ma figurati, manco sarebbe stata a sentirlo.
Lei era così nelle sue cose: o bianco o nero, niente mezzi toni, intransigente fino a essere ottusa.
Comunque, l’essere stato mollato non era la cosa più spiacevole di quel risveglio mattutino: l’amore era importante, questo era sicuro, ma la pelle non solo era importante, era indispensabile... tenersela.
Sì, perché c’era un secondo messaggio, questo non era scritto, ma un vocale:
– Ciao, stronzo! Sono il “Molleggiato”, ti ricordi di me? Ti sei preso la mia roba, vero? Ci vediamo presto, brutto coglione.
Certo che se lo ricordava, il “Molleggiato”: quello smilzo, dinoccolato, con la passione per Celentano, convinto pure di somigliargli, di avere il suo fascino.
Che poi, in realtà, era solo brutto e con una faccia da scimmia scema.
Del vero “Molleggiato” non aveva nulla, era anche stonato quando si ostinava a cantare Azzurro: facendo l’espressione seria, da duro, come l’Adriano nazionale.
Per altro, a lui quella canzone era sempre stata sul gobbo: odiava le imprecisioni linguistiche nei testi.
Infatti, non aveva mai compreso come fosse accaduto che l’ottimo Paolo Conte, autore della canzone, avesse potuto incorrere in quel sanguinoso svarione grammaticale.
Il pezzo in cui diceva:
– “Egli” è partita per le spiagge –
era marchianamente sbagliato, poiché, trattandosi di una donna, avrebbe dovuto usare un “lei” o un “ella”.
Quell’errore, che deturpava la lingua italiana, era rimasto invariato nel testo per oltre un trentennio, poi qualcuno doveva averglielo fatto notare e, finalmente, un corretto “lei” aveva sostituito quell’obbrobrio.
Però, il Molleggiato epigono, una cosa dell’atteggiamento spavaldo dell’originale l’aveva davvero: essere un vero duro.
In effetti, era cattivo come una bestia, quando le bestie sono cattive.
Anzi, di più, era proprio una carogna “inside”, una vera fogna colma di stronzi.
Quindi, quel messaggio non era da prendere sottogamba.
A tal proposito, doveva ricordarsi di prendere la confezione di pallottole tenuta nel mobiletto del bagno, per la Beretta che aveva nel cassettino del SUV: meglio essere pronti in caso di discussioni con l’orango.
Aveva avuto a che fare con lui in passato, per una storia di certe fuoriserie rubate, a cui meccanici e carrozzieri compiacenti modificavano il telaio, sostituivano le targhe, per poi spedirle sui mercati mediorientali.
Si conoscevano bene, ma lui non aveva più voluto fare affari con lui:
era un violento, stupido e pericoloso, meglio girargli alla larga.
Ora era incazzato con lui per la “roba” che si era preso dal “Trucciolo”.
Trucciolo era un finocchio che faceva il pusher per sbarcare il lunario.
Lo chiamavano così perché portava una parrucca bionda, tutta boccoli, a coprirgli la pelata da tossico.
Sì, perché Trucciolo era un tossico infognato fino ai capelli, che, a causa dell’eroina, gli erano caduti tutti, e aveva perso pure buona parte dei denti.
Ora, la “roba” di Trucciolo l’aveva lui: poca roba, una quantità di “coca” che, al massimo, ci facevi ventimila euro a piazzarla bene.
Ma il Molleggiato era avido e tirchio come uno strozzino scozzese: ci teneva alla sua “roba” e ai soldi.
Per quelli ti avrebbe aperto dall’inguine alle tonsille e avrebbe dato le tue interiora in pasto al suo rottweiler, per altro, dotato d'un'aria da scemo peggio del padrone.
Ora, vagli a spiegare che lui non sapeva che la “roba” fosse sua e che il Trucciolo facesse solo da intermediario, vendendola per suo conto.
Quando si erano trovati col tossico per contrattare, mica gli aveva detto per chi gli stava vendendo il “prodotto”.
Averlo saputo allora, si sarebbe ben guardato dal fare quello che aveva fatto.
A conclusione dell’affare a casa di Trucciolo: il tossico gli aveva dato il pacchetto e lui gli aveva già dato i soldi: tutto regolare.
Stavano per salutarsi, ma Trucciolo aveva chiesto:
– Che fai, vai via così? Ti ho fatto fare un affare a un prezzo che manco al banco della Caritas ti trattavano meglio. Non fare il pulcioso. Almeno una dose me la devi offrire.
Lui era uno generoso, lo era sempre stato, Azzurra lo sapeva bene: alla stronza, in due mesi che erano stati insieme, le aveva sempre fatto fare la vita da diva.
Ristoranti stellati, regali, profumini, vestiti griffati e quant’altro; e lui sempre pronto a tossire contante come un bancomat.
Le piaceva anche che la scarrozzasse in giro col SUV giapponese: una macchina che cubava novantamila euro; mica a Montecarlo ce la portava con la Panda.
Le piaceva essere trattata da principessa col suo “principe azzurro” che le foraggiava tutti gli sfizi.
Diceva di essere affascinata dall’aura di mistero che lo avvolgeva.
Un uomo interessante, facoltoso, generoso e che la trombava pure bene:
aveva sbancato il jackpot del Superenalotto, la ragazza.
Ovvio che lui avesse mantenuto una certa discrezione sulle sue attività: un lavoro che gli fruttava quei trentamila euro al mese, che gli consentiva di vivere dignitosamente, senza ricorrere all’assegno di sussidio sociale.
Aveva il suo piccolo giro di donnine da proteggere, un po’ di scommesse clandestine e lo spaccio di modiche quantità di cocaina; insomma, si arrangiava per mettere insieme il pranzo con la cena.
Aveva soddisfatto la richiesta di Trucciolo e gli aveva regalato la dose.
Stavano in cucina a casa di lui: l’altro, con le sue fisime, aveva iniziato a dire che, da vecchi amici, non fosse bello lasciarlo a “farsi” da solo.
Gli aveva rammentato il vecchio adagio:
“Chi non sbiella in compagnia è un ladro o una spia. Chi si astien dalla sbiellata è un gran figlio di mignotta.”
Per farla breve, lui aveva preparato due binari di coca da tirarsi insieme, ma quel vizioso del Trucciolo aveva detto che lui la coca non la sprecava tirandola su col naso: se la faceva direttamente in vena.
Quindi, aveva approntato tutta la giostra: cucchiaino, acqua e limone, siringa da insulina; si era annodato il laccio emostatico al braccio e, caricata la “spada”, se l’era sparata in vena.
Fatti suoi, lui in vena non si era mai sognato di ficcarsi nulla, per altro, essendo ipersensibile, sveniva anche al prelievo del sangue alla mutua.
Comunque, cazzi suoi se voleva “fiondarsi” con la coca, che facesse pure; chi era lui per impedirglielo?
Solo che doveva aver esagerato con la dose, o forse non aveva controllato se c’era rimasta aria nella siringa, perché subito dopo aveva strabuzzato gli occhi ed era cascato al pavimento: aveva fatto qualche sussulto, si era pisciato sotto e le aveva tirate.
Bon! Forse un embolo o un’overdose fulminante: di fatto, era stecchito.
Aveva provato a tastargli il polso, sentire il respiro, ma nessun segno di vita.
Per tranquillità, gli aveva anche acceso l’accendino sotto il palmo di una mano: ma non c’era stata nessuna reazione: idem come fare una sega a un morto, e quello, morto, lo era di sicuro.
A quel punto, mica poteva chiamare la Polizia o il 118, si sarebbe ficcato in un casino immane a spiegare cosa facesse in quel posto mentre l’altro le tirava.
Aveva la “roba” in tasca, i soldi erano ancora sul tavolo: aveva fatto che prenderli e andarsene.
Però, aveva lasciato la porta dell’alloggio accostata, senza chiuderla, come pura cortesia verso il morto.
Aveva pensato: “Prima o poi un vicino, la portinaia, un conoscente, sarebbero entrati a cercarlo e, trovandolo cadavere, si sarebbero occupati del resto.”
Chi avrebbe mai pensato al Molleggiato, e soprattutto che quello avrebbe pensato a lui.
Ma la cosa era chiara: a cercare Trucciolo, prima dei vicini e della portinaia, c’era andato lo scimmione.
Perché era evidente che aspettava la conferma telefonica dal tossico, d’aver venduto la sua “merce”, e gli premeva d’incassare i proventi.
Ovvio anche che il Trucciolo, nel farsi affidare la “roba”, gli avesse preannunciato chi fosse l’acquirente.
Il Molleggiato, non sentendo la telefonata, era andato a cercarlo a casa: trovandolo morto e non trovando più né soldi né roba, si era fatto due conti ed era risalito a lui.
La conferma l’aveva ricavata scorrendo i messaggi sul cell del Trucciolo: c’erano tutti gli SMS della trattativa e la conferma per l’ora dell’incontro.
Fanculo! Non ci aveva pensato: avrebbe dovuto portarsi via anche il cellulare del tossico.
Quando c’era di mezzo la sfiga, non avevi possibilità di pararti il culo.
Più o meno la stessa sfiga che aveva creato il suo problema con Azzurra.
In sociologia, secondo la teoria dei “sei gradi di separazione”, si dice che ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona al mondo, attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari.
Ecco, giustamente, con Azzurra uno dei cinque era stata quella pettegola di Loredana Ratti.
Questa Loredana, una “lontrona”, che in passato era stata sua socia in affari; con la quale, tra un affare e l’altro, avevano anche scopato come ricci.
Con la Ratti aveva rotto i ponti da tempo: perché era inaffidabile e si era pure accorto che avesse cercato di fregarlo.
La tipa, colmo della sfiga, era divenuta amica di Azzurra.
Quando aveva saputo che filava con lui, la zoccola non aveva trovato di meglio che sputtanarlo su quali fossero le sue misteriose attività.
Ovvio che, istigata da quell’impicciona con la lingua lunga, Azzurra fosse inorridita per quelle rivelazioni, decidendo di mandarlo a stendere.
Comunque, ora la cosa più urgente era di mettere in salvo il culo, l’idea che quell’animale canterino e sanguinario stesse venendo a cercarlo gli procurava un consistente disagio.
Si vestì senza fare la doccia: non c’era tempo da perdere.
In una sacca ficcò, alla rinfusa, della biancheria intima e camicie di ricambio che gli sarebbero servite per star via un po’, il resto lo avrebbe acquistato alla bisogna dove si sarebbe fermato.
Dalla cassetta di sicurezza a parete, prelevò tutto il contante che possedeva: una cifra intorno a sessantamila euro; per stare via finché le acque si fossero calmate ne aveva a sufficienza.
Si sarebbe intanato in qualche località della Costa Azzurra per alcune settimane, sistemandosi in un ameno alberghetto accogliente.
Sarebbe stata una vacanza fuori stagione, che avrebbe trascorso a base di piatti d’ostriche al gratin, o in salsa mignonette, annaffiate con Beaujolais Blanc gelato.
In quella, giunse dal telefonino il ronzio di una nuova notifica: era del Molleggiato, che diceva:
– Pezzo di cacca! Sono a tre isolati da casa tua, non azzardarti a squagliartela, perché prima d’ammazzarti ti taglio anche i coglioni.
– Azz! – pensò – secondo lui, dovrei stare qui ad aspettare che venga a staccarmi i gioielli di famiglia? Questo è tutto scemo!
Si fiondò in bagno a recuperare la trousse da toilette, la cacciò nella sacca e si sparò fuori dalla porta di casa.
Non attese l’ascensore, fece le scale scendendo come un fulmine, saltando tre gradini alla volta.
Il SUV era parcheggiato sul marciapiede a qualche metro dal portone del palazzo: senza attendere un secondo, saltò al sedile di guida e inserì la chiave d’accensione.
Girò la chiave nel blocchetto d’avviamento: ma non successe nulla, non si accese neppure il quadro del cruscotto.
Concitato, replicò il tentativo d’avviare il mezzo: ma non dava segni di vita.
Un orgasmo d’ansia gli mandò il sangue alla testa:
– Cazzo!! Non si accende – urlò esagitato nell’abitacolo – fanculo!! Troia!! Accenditi!
Ma non c’era storia, non arrivava elettricità.
Pensò rabbioso che non fosse possibile: aveva fatto il tagliando alla macchina non più tardi di due settimane prima:
– Che cazzo! Non può avere la batteria scarica!
In effetti, una macchina di quel livello, che a farle il tagliando ci andava una cifra pari allo stipendio mensile di un operaio di quarto livello, la batteria scarica diveniva un sacrilegio solo a pensarlo.
Sentì bussare al finestrino, si voltò di scatto: di là dal vetro, il Molleggiato, con la sua espressione ebete, gli sorrideva in maniera crudele.
Prima che potesse dire un bah, il malvivente aveva già spalancato la portiera: gli mise, minacciosamente, sotto il mento un rasoio dalla lama affilata e lucente.
Lui, con uno scatto di puro terrore, arretrò di lato, portandosi sul sedile del passeggero con le gambe puntate verso l’alto contro chi si faceva avanti.
Ahahaha! Il piccioncino voleva involarsi. Ma bene... – sogghignava il Molleggiato.
– Ma no, sono sceso ad aspettarti per renderti la tua roba.
– Sì, sì. E mentre aspettavi, ti facevi un giro dell’isolato in macchina, giusto?
– Ma figurati, non hai visto che la macchina è inchiodata, manco si accende.
– Certo. Perché, prima di mandarti il messaggino per farti uscire di casa, ho provveduto a staccarti i cavi della batteria – disse con aria soddisfatta.
– Azz! Sei stato tu? Accidenti a te. Ho pensato che mi avessero fregato quelli dell’officina meccanica.
– Macché, è stato un mio colpo di genio per fotterti. In realtà volevo tagliarti le quattro gomme: ma poi ho pensato che dopo che ti avrò fatto la festa, mi porterò via il SUV e quindi mi servono; meglio staccare i cavi, – Aveva un’aria festosa, gongolava come un koala in una foresta di bambù.
– Senti, Molleggiato: da vecchi amici ci rispettiamo: c’è stato un problema, parliamone, possiamo risolverlo.
– Non credo. Non siamo affatto amici e tu non hai mai avuto rispetto di me.
– Ma che dici? Ti ho sempre ammirato, giuro!
– Non dire cazzate! Quando cantavo Azzurro mi hai sempre schifato e so, da altri, che mi facevi l’imitazione, prendendomi per il culo.
– No, no, quando mai? Ti hanno raccontato fesserie, erano malelingue invidiose della nostra amicizia. Non dovevi dar retta.
– Quindi la canzone ti piaceva?
– È una delle mie preferite, credimi.
– OK! Allora, se ti piaceva, cantamela.
– Come, cantamela? Devo cantarti Azzurro?
– Sì, quella. E vedi di cantarla bene e senza stonare, che alla prima stecca ti taglio le corde vocali.
– Ma no, cazzo! Dai! Io non so cantare, poi non mi ricordo neanche le parole.
– Mettiamola così: se la canti in modo giusto, mi riprendo solo la roba e la macchina e non ti sgozzo. Vedi un po’ se ti tornano memoria e intonazione.
La merda voleva umiliarlo, era evidente, canzone o no, forse lo avrebbe ammazzato lo stesso.
Comunque, era meglio temporeggiare, doveva mettere mano alla pistola che teneva nel cassettino del cruscotto.
– Va bene, mi hai convinto. Se ci tieni, la canto.
Si chiarì la voce con un colpo di tosse e iniziò a intonare la famosa hit del Molleggiato originale:
“Cerco l’estate tutto l’anno
e all’improvviso eccola qua.
‘Ella’ è partita per le spiagge
e sono solo quassù in città...”
– Frena! Hai sbagliato.
– Cosa ho sbagliato?
– Dice “Egli”. Nella canzone dice “Egli”, non “Ella”.
– Sì, vabbè, ma è grammaticamente sbagliato, si parla di una donna: quindi ci va un “Ella” o un “Lei”. Capisci? È un errore.
– Naa! Vuoi insinuare che Celentano abbia scritto una cazzata?
– No, non lui: l’autore. È un refuso, una svista. Può succedere.
– A Celentano non succede, a lui non è mai successo.
– Eppure sì, se conosci la lingua italiana, quello è un errore, fattene una ragione.
– Allora, dato che l’ho sempre cantata così, mi stai dando dell’analfabeta? Mi stai dicendo che sono ignorante?
– Ma figurati, è una sciocchezza, solo un pronome, non facciamone un dramma.
– Ora non fingere! Lo so che mi credi un cazzone. Comunque, hai sbagliato, quindi ora ti taglio la gola.
– Ma vaffanculo! Te e Celentano, brutto scimmione! – gli tirò un calcio sulla mano che reggeva il rasoio e, con un movimento fulmineo, fece scattare l’apertura del cassettino: il Molleggiato si ritrovò la canna della Beretta tra gli occhi.
– Ecco! Brutto idiota psicopatico! Ora non parli più, vero? Questa non te l’aspettavi – disse lui con trionfante veemenza.
Il Molleggiato osservò la canna dell’arma e poi gli occhi di lui, con un’espressione di pacata sufficienza.
Lui ormai sentiva di aver ribaltato la situazione, lo teneva in pugno: con una voce ultimativa da far invidia a Clint Eastwood in uno dei suoi Callaghan, intimò:
– Butta quel rasoio pezzo d'animale, e porta fuori le chiappe dalla mia macchina. Inoltre, da bravo, mi rimetti a posto anche i cavi della batteria.
– Se no? – rispose l’altro con un’aria di sfida.
– Se no, ti faccio saltare la testa. In ogni caso, fuori dalla macchina, che non voglio raccogliere i pezzi del tuo cervello sparsi nell’abitacolo. Guarda che non scherzo.
L’altro, mostrando una tempra da vero duro, rispose sprezzante:
– E spara, dai: fammi vedere se hai davvero il manico o fai solo chiacchiere. Ahahahah! – rideva sguaiatamente.
– Ma sei scemo? Cazzo ti ridi? Ma vuoi morire davvero? Guarda che sparo sul serio.
– Sì, dai. Spara, sono proprio curioso.
In quel momento, lui provò uno scoramento abissale: si era rammentato che, nella fretta della fuga, non aveva preso la scatola delle pallottole: la pistola era scarica. Del resto non è che poteva lasciare nel cassettino un “ferro” col colpo in canna, se lo fermavano era un casino, si andava nel penale; inoltre l'arma aveva la matricola abrasa e non era neppure dichiarata. Bestemmiò mentalmente.
In ogni caso, il Molleggiato non poteva sapere se l’arma fosse carica o no. Decise di mantenere il punto:
– Te lo ripeto: mi sto spazientendo, finisce che ti faccio secco davvero.
– Smettila di stressarmi! Mi sa che tu sia più checca di Trucciolo. Non c'hai il pelo. Se devi sparare, spara e falla finita. – ribadì lo scimmione.
L’insulto gli provocò una botta di sangue agli occhi. Nessuno aveva mai osato mettere in dubbio la sua mascolinità.
La mano gli tremava per l’ira: premette inutilmente il grilletto con un rifelesso automatico e fece fuoco.
Ci fu ovviamente un click a vuoto, che confermò il disarmo della nove millimetri.
– Ahahah! Lo sapevo che eri un minchione! Lo sapevo! – rideva oscenamente il Molleggiato.
Lui aveva un’espressione funerea, non si divertiva per niente.
– Sapevi cosa? Pezzo di scemo.
– Che fosse scarica. Che mi minacciavi con una pistola scarica. Ovvio, sei un fesso integrale.
– Non fare il furbo, come facevi a saperlo? Hai giocato d’azzardo pensando che non ti avrei sparato, vero?
– Ma neanche per sogno. Secondo te, io rischiavo davvero di farmi ammazzare? Tu stai male di capoccia, bello mio.
– E allora perché lo sapevi?
– Perché c’avevo già guardato in quel cassettino, proprio dopo aver scollegato i cavi. Tu mi sottovaluti. Mi credi scemo. L’hai sempre creduto.
Ora la situazione si faceva decisamente seria: decise di giocare l’ultima carta che aveva, per salvare la pelle.
L’unico argomento a cui quella bestia fosse sensibile erano i quattrini.
Lui ne aveva dietro una quantità che sicuramente l’altro avrebbe gradito di mettersi in tasca.
– Senti, Molleggiato, abbiamo scherzato, si è anche cantato, ma ora parliamo di cose serie.
– Bravo! Se mi rendi, senza farla lunga, la “roba” che mi hai fregato, prometto che ti ammazzo in maniera rapida e quasi indolore.
– Smettila con ‘sta solfa d’ammazzarmi. La “roba” te la rendo, ma posso darti anche una bella cifra e evitarti un omicidio inutile.
– Ah! Sì? E sentiamo, quanto offri?
– Fai tu il prezzo, quanto vuoi?
– Centomila eurozzi e salvi la ghirba.
– Te ne do venticinquemila.
– Non dire stronzate! Novantamila.
– Trentamila.
– Ottantacinque.
– Quarantamila.
– Settantacinque.
– Cinquanta.
– Sessantamila.
– OK! Affare fatto. Sessantamila, ma mi tengo la macchina.
– OK! Ma i cavi della batteria te li riattacchi da solo.
– Sei proprio una merdaccia!
– Fottiti! Mollami la “roba” e il grano.
Lui cavò fuori la busta della coca e quella dei contanti dalla sacca: gli mise in mano il tutto.
L’altro controllò il contenuto di entrambe, poi richiuse la lama del rasoio, rimettendo in tasca l’utensile, scese dall’auto e con calma iniziò ad allontanarsi. Era finita bene. Tutto sommato, ci aveva rimesso un po’ di soldi, ma la pelle veniva prima di tutto.
Aprì il cofano per ripristinare il collegamento della batteria.
La batteria era al suo posto, ma non vi era traccia dei cavetti di collegamento.
Cacciò l’ennesima bestemmia, quell’animale si era portato via i cavi.
Roba da non crederci, ma si poteva essere più stronzi di così?
Gli trillò il cellulare: era un messaggio del Molleggiato, conteneva un file musicale, lo attivò e la canzone partì:
“Se sei tu l’angelo azzurro
Questo azzurro non mi piace
La bellezza non mi dice
Le parole che vorrei...”
Lanciò, con stizza, il telefonino dall’altra parte della strada.